Giovani Comunisti/e L'Aquila

giovedì 10 febbraio 2011

Foibe, noi ricordiamo... tutto!


In vista della "giornata del ricordo" voluta dagli elementi revisionisti del governo Berlusconi, pubblichiamo un nostro articolo sulla “questione foibe”. Da comunisti e da militanti dell'ANPI siamo impegnati nella lotta al revisionismo storico per difendere il presente dalla nuovo nazionalismo e dal nuovo fascismo


La problematica delle foibe si inserisce nel quadro degli atti di giustizia sommaria e dei regolamenti di conti che segnarono diffusamente in Europa la fine del secondo conflitto mondiale. Parlando di foibe, cavità naturali presenti nella regione della Venezia Giulia ed utilizzate nel periodo di guerra come fosse comuni, ci si riferisce al fenomeno di esecuzioni sommarie ed atti di violenza che colpì le figure ritenute maggiormente compromesse con il regime fascista e con l'occupazione nazista, prima a seguito dell'armistizio nel 1943 e poi con la Liberazione nel 1945. Per comprendere correttamente queste dinamiche è necessario contestualizzarne gli sviluppi ed individuarne le radici storiche e culturali.
Il territorio della Venezia Giulia rappresenta storicamente un'area multietnica, caratterizzata dalla triplice presenza di sloveni croati ed italiani. Questi ultimi costituivano in linea tendenziale, sotto il profilo politico ed economico, la classe dominante della regione ed erano insediati principalmente nelle città. Gli “s'ciavi”, termine spregiativo in uso per designare sloveni e croati, residenti per lo più nelle campagne, erano in gran parte relegati ai margini della società e venivano spesso considerati come barbari e rozzi, trattati in maniera a volte aggressiva a volte paternalistica. Ciò accrebbe molto, nel lungo periodo, il risentimento delle popolazioni slave verso la classe dirigente italiana.
Con la prima guerra mondiale e con la disgregazione dell'impero austro-ungarico, di cui la regione giuliana faceva parte, questa passò sotto sovranità italiana. Poco dopo, l'avvento del fascismo condusse all'escalation della politica di cancellazione dell'identità culturale e della volontà di emancipazione sociale e politica di sloveni e croati al confine orientale. Il regime intervenne infatti duramente nell'area, adottando una politica di “snazionalizzazione” forzata degli slavi residenti in Italia, finalizzata alla loro completa assimilazione alla coscienza nazionale italiana: assimilazione ammessa previa adesione incondizionata alla struttura sociale e politica dello Stato italiano. Di conseguenza scuole, giornali, associazioni, partiti slavi vennero sciolti. Fu vietato l'uso di lingue differenti dall'italiano in luoghi pubblici. Sul piano socio-economico vennero tagliate le possibilità di emancipazione e di sviluppo, ad esempio attraverso la redistribuzione della terra degli slavi a coloni italiani. La condotta del regime al confine orientale fu dunque improntata ad un'opera di “italianizzazione” coatta delle popolazioni slovene e croate, applicata con la coercizione diretta o con la spinta all'assimilazione “spontanea” ad una cultura e ad una civiltà, quella italiana, ritenuta esplicitamente superiore. Lo steccato psicologico innalzato in età asburgica dagli italiani nei confronti dei conterranei slavi si ripropose così in forma aggressiva e nazionalista. Il tutto sulla base del progetto di sovrapporre completamente confini etnici e confini politici dello Stato italiano, in virtù di una visione dello Stato improntata ad una fanatico nazionalismo ed ermeticamente chiusa ad ogni forma di apertura verso l'esterno e verso il “diverso”. L'impostazione nazionalista della dittatura fascista andava di pari passo con la vocazione imperialista e bellicista della stessa. Vocazione rivolta, accanto alle ambizioni di ambito africano, nei confronti nel mondo balcanico, sulla base soprattutto di spinte di espansione economica e commerciale provenienti dalle classi dirigenti della penisola.
La guerra portò a compimento le aspirazioni imperialiste del regime sull'area balcanica.
Dopo aver già dato prova di sé con l'aggressione ai danni dell'Etiopia (con l'utilizzo peraltro di armi chimiche sui civili) nel 1935, col ritorno in Libia e con l'occupazione dell'Albania nel 1939, lo Stato fascista, nell'intento di rendere l'Italia potenza egemone in ambito mediterraneo, mise pienamente in atto le proprie ambizioni di espansione e di dominio.
Il 6 Aprile 1941 l'esercito italiano attaccò il territorio balcanico. Le velleità di conquista fasciste sui Balcani si concretizzarono in quegli anni nell'annessione diretta della Provincia di Lubiana, in pieno territorio sloveno, nell'occupazione del Montenegro, nel protettorato instaurato sull'Albania, nell'aggressione alla Grecia del 1940. Il regime istituì un sistema di campi di concentramento (come Arbe, Renicci, Chiesanuova, Gonars) allestiti nella penisola e nei territori occupati, dove furono interate decine di migliaia di persone, causando circa 10mila morti, soprattutto civili.
Il costo complessivo dell'occupazione balcanica si aggira intorno alle 200mila vittime. Le camicie nere e l'esercito italiano, sulla spinta di direttive come la famigerata circolare 3C del generale Roatta, si resero colpevole di atti di violenza brutale ed autentici crimini di guerra, come nel caso di Phodum, presso Fiume, con la fucilazione di 108 uomini. Accanto alle esecuzioni sommarie spesso si aggiunsero incendi di case e villaggi interi. Dopo l'armistizio, l'avvento devastante delle truppe tedesche, attivamente coadiuvate nell'opera di repressione da parte dei fascisti della Repubblica sociale, peggiorò notevolmente lo scenario, incrementando di riflesso le tensioni ed il livello di esasperazione popolare.
Tutto ciò rappresenta il substrato e la premessa per il verificarsi di atti di violenza e di applicazione sommaria della giustizia, nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945, da parte di insorti e formazioni partigiane nel primo caso, e da parte delle truppe dell'esercito jugoslavo nel secondo. Molti di coloro che vennero giustiziati trovarono sbrigativa sepoltura nelle foibe della regione. Le violenze incontrollate colpirono anche vittime innocenti legate allo Stato italiano e facilmente assimilabili al regime fascista, il quale aveva sempre insistito sulla sovrapposizione e l'identificazione tra italianità e fascismo, tra fascio e tricolore. In questo contesto vi fu spazio per vendette private e regolamenti di conti personali. Gli eventi ebbero nel complesso una radice essenzialmente politica ed ideologica (pur non mancando negli animi di molti slavi un diffuso sentimento di rancore, accumulato nei decenni, verso gli italiani) e si connotarono come momento di sfogo dell'esasperazione procurata dalla politica di “bonifica” etnica del fascismo al confine orientale. Se nel 1943 questa reazione fu principalmente spontanea, nell'ambito di improvvisate insurrezioni, nel '45 le autorità jugoslave ebbero invece importanti responsabilità nel degenerare degli eventi.
L'interpretazione secondo cui gli italiani uccisi lo furono “in quanto tali” è decisamente scorretta. L'infelice sorte degli stessi collaborazionisti croati, serbi, sloveni catturati dalle truppe di Tito ne rappresenta una chiara confutazione. La tesi, attualmente riproposta dalla destra, della pulizia etnica a danno degli italiani, che accantona le responsabilità della classe dirigente italiana e della dittatura fascista e la connotazione principalmente politica dei fatti, recuperata peraltro di peso dalla propaganda nazifascista del '43-'45, è semplicemente strumentale a preoccupanti forme di redenzione storica dell'esperienza del Ventennio e di legittimazione politica della destra neofascista. Di pulizia etnica, perlomeno sul piano culturale, se ne può invece legittimamente parlare riferendosi alla politica di confine del fascismo verso sloveni e croati.
Decontestualizzando gli eventi in questione dalla propria matrice storica e culturale, riconducibile alle vessazioni da parte italiana ed alla politica imperialista del fascismo, la comprensione degli stessi ne risulta conseguentemente distorta. Per cogliere pienamente la complessità del discorso è necessario superare una prospettiva interpretativa di stampo meramente nazionale e focalizzata su una considerazione delle tre componenti etniche della regione come forze monolitiche ed a sé stanti, analizzando il ruolo e la configurazione dei diversi strati sociali e dei vari fattori economici e politici che influirono sugli sviluppi qui delineati. Un fenomeno come quello delle foibe merita indiscutibilmente approfondimento ed analisi, con la consapevolezza però che se da un lato è doveroso criticare gli eccessi e gli errori del movimento di Resistenza e delle autorità jugoslave, dall'altro è necessario ricondurli ai loro prodromi, del razzismo verso gli slavi, del fascismo, della guerra.

GC-FGCI L'Aquila