Suona il telefono “ciao, sono un compagno di Messina, sono venuto con le Brigate all'Aquila, stiamo organizzando una Brigata della Solidarietà per dare una mano alle persone alluvionate, come possiamo fare?”…6 mesi fa una telefonata come questa sarebbe stata inimmaginabile, oggi invece mi pare normale per un partito come il nostro che si è misurato con la sfida di una mutazione antropologica della militanza.
In Abruzzo abbiamo provato a rendere utile socialmente la nostra organizzazione sperimentando una differente modalità nel fare politica. 6 mesi, 180 giorni, sono un'eternità per la gestione di un intervento di questo tipo, lo sono perché è stato una sorta di miracolo - con una struttura che si è andata formando in presa diretta sul campo - vedere circa 700 attivisti/e venire da tutta Italia a dare una mano. Con loro sono arrivati 200 tra camion e furgoni di generi di prima necessità, con loro abbiamo tenuto aperte e costruito 3 cucine, 3 spacci popolari, 1 tenda sociale, uno sportello legale, una lavanderia popolare, ed un servizio di “volante della solidarietà” per consegnare nelle prime settimane cibo ed indumenti a chi non era registrato dentro i campi.
Un’esperienza che ha raccolto molte storie differenti; di Ultras e di scout, di persone in libertà vigilata e cassaintegrati, di libertari e fedeli alla linea, di cuochi e “persone de core”. Una dimensione popolare in cui molti compagni hanno dato tanto del loro tempo, instaurando una relazione con la popolazione estremamente positiva che sarà destinata a durare a lungo. E' stata un'impresa collettiva, una sorta di miracolo in un'Italia malata di egoismo e antipolitica. Se c'è qualcuno ancora che pensa di ricostruire in questo paese un'idea nuova del fare politica non può che partire da questa esperienza e dalla potenzialità che questa ha generato pur tra mille difficoltà e contraddizioni. Ma la cosa che questa esperienza lascia a tutti e tutte, e che la solidarietà tra pari, come le pratiche sociali che in questo spazio si determinano sono il cemento per la ricostruzione dell'agire politico e sociale.
Chi è stato a Tempera, a Camarda, ad Aragno, a Pescomaggiore, a Filetto è tornato con un tatuaggio indelebile che rimane addosso per tutta la vita, tanti giovani come non ne vedevo da tempo hanno attraversato questa esperienza, dimostrando che non è poi così vero che l’orizzonte del mondo giovanile sia solamente la massificazione consumista. Densità di rapporti sociali, lacrime e sorrisi, conflitti e feste, condivisione dei bisogni e delle paure, lavorare “con” i cittadini senza mai mettersi sul piedistallo del potere che offre dare una mano a chi è in difficoltà. Favorire l'autorganizzazione, non è stato semplice, così come lavorare per la presa di voce contro la delega in un contesto invece che andava in direzione opposta.
Le Brigate, la loro modalità di lavoro è una eccezione positiva alle classiche associazioni della protezione civile, una struttura di attivismo sociale non neutra, che lavora per cambiare socialmente il contesto in cui opera, una struttura che nel livello simbolico si è posta fin dall'inizio l'obbiettivo di ridare legittimità alla tradizione della solidarietà del movimento operaio. Ma se questa nostra identità non è stata nascosta essa non ci ha impedito di lavorare come una struttura pragmatica, aperta sulla pratica dell'obbiettivo, mediando con le istituzioni, operando con soggetti che non hanno la nostra stessa visione del mondo sia all'interno che all'esterno delle Brigate. Ritengo che questo sia un punto di forza del modello d'intervento che abbiamo costruito, un modello che è riuscito a bilanciare solidarietà e conflitto, cosa non sempre facile e sulla quale si è dovuto discutere parecchio trovando un punto di equilibrio che ci ha permesso di attraversare fasi difficili.
Essere riusciti a delineare un modello differente di protezione civile che abbiamo definito popolare, che si è misurato nelle pratiche di solidarietà ma anche di conflitto, partecipando al contro g8 e alle mobilitazioni dei comitati è secondo me una vittoria enorme. Una vittoria perché lavorare controcorrente all'interno di un meccanismo emergenziale, tipico della shock economy non è stato facile, anche perché abbiamo nuotato contro una campagna mediatica gestita da Berlusconi che ha trasformato l’Aquila in un set cinematografico. La nostra legittimità però l’abbiamo conquistata sul campo, non con le parole ma con i fatti, mentre c’era chi sfilava in piazza D’Armi in passerella noi eravamo tra le persone, con i comitati, denunciando fin da subito la critica al modello bipartisan di ricostruzione adottato, il consumo del territorio, l'emergenza lavoro e la speculazione sul caro affitti.
Se dovessi fare un paragone azzardato così come nel terremoto dell'Irpinia abbiamo assistito all'irrompere del volontariato come contenitore che ha recepito molte energie in fuga dalla sconfitta del ciclo di lotte degli anni sessanta e settanta, allo stesso modo possiamo pensare in maniera piuttosto ardita che all'Aquila si siano gettate le prime basi per provare a politicizzare il lavoro sociale a partire dalla diversità delle pratiche sviluppate. La vera differenza con le altre associazioni consiste nel fatto che non vi è stata differenza tra noi e la popolazione, alcuni giorni eravamo indistinguibili anche se avevamo le pettorine. Dal popolo per il popolo recitava una frase scritta sullo spaccio di Tempera, non era uno slogan, ma la constatazione che c'era una effettiva parità di condizione sociale e materiale, di precari che davano una mano a chi non aveva più una casa. Una composizione “popolare” quindi, dove i ruoli e l'autorevolezza si sono conquistati sul campo, discutendo, litigando, mediando.
In un'assemblea un ragazzo ha detto che è proprio perché siamo sconfitti socialmente nella vita di tutti i giorni nelle nostre città, che riusciamo a porci come “paritari” con le persone alle quali stiamo una mano dopo che il terremoto ha distrutto le case, penso che questo sia un punto da sottolineare. Ed è questo forse uno degli insegnamenti primari che viene da questa esperienza che proseguirà ancora oltre la chiusura del campo di San Biagio in Tempera, non solo all'Aquila ma in tutta Italia. Alla Lasme di Melfi, il 15 agosto le Brigate erano davanti il presidio dei lavoratori ed hanno organizzato la loro cucina a sostegno della lotta degli operai, così come lo hanno fatto con gli insegnanti precari di Benevento dando sostegno alla loro lotta mentre erano sul tetto del provveditorato, cosi è stato fatto per i precari che in queste settimane sono stati accampati davanti il ministero dell'istruzione.
Teniamo vivo lo spirito delle Brigate, ovunque, non perdiamoci di vista ed organizziamo le Brigate della Solidarietà nei nostri territori, per questo motivo ritengo che questa struttura di solidarietà debba dotarsi di una propria forma associativa tale da permetterle di operare sia negli interventi di protezione civile che nelle nuove forme di azione diretta a sostegno dei conflitti e delle vertenze. Nella crisi del terremoto abbiamo capito come poter operare nel terremoto della crisi questo è l’altro punto di riflessione, l’egoismo e la guerra tra i poveri, l’ansia sociale, la solitudine, il senso di colpa della propria condizione di vita sono il cemento con il quale le classi dominanti hanno vinto in questi anni, dopo questa esperienza possiamo concretamente sentirci una grande comunità che mette al centro del proprio agire la solidarietà. Abbiamo fatto insieme un
gran bel lavoro, avanti Brigate, andiamo ovunque!
(foto: 27 settembre, Tempera ringrazia la Brigata di Solidarietà Attiva)